La creatività è una competenza?

Nella recente pubblicazione da parte di Fondazione Agnelli dal titolo Le competenze, Una mappa per orientarsi, si traccia una sintesi efficace del dibattito attuale sul tema, dentro il quale albergano molte tensioni e dicotomie che vorremmo provare a risolvere dal punto di vista di quella facoltà così prettamente umana che è la creatività. Nel dibattito attuale si trovano infatti spesso contrapposti i due paradigmi di apprendimento, quello impropriamente detto “trasmissivo” di conoscenze e abilità e quello detto appunto “per competenze”. Ci si accusa da un lato di rendere la scuola “solo” un ingresso al mondo del lavoro dimenticandosi del suo fondamentale compito di educare al pensiero critico attraverso la cultura. Dall’altro si accusa di immobilità, astrattezza, insignificanza e inutilità la scuola “tradizionale” fondata sui programmi e le verifiche. Il contributo di Fondazione Agnelli ha il merito di mostrare la parzialità e la riduzione insite in queste polarità schierate una contro l’altra: di competenze ante-litteram parlavano già menti che hanno rifondato l’idea di scuola nel ‘900 come John Dewey, o la nostra rivoluzionaria Maria Montessori; il concetto è stato anche alla base anche della “pedagogia degli obiettivi”, da Tyler a Mager, da Bloom a Guildford, fino al costruttivismo cognitivista e al sociocostruttivismo. La didattica per competenze ha, oltre a questa origine endogena, anche una origine esogena: il mondo del lavoro (che è il mondo adulto: non è uno degli obiettivi della scuola, insieme alla famiglia, contribuire a generare un adulto?) con le sue trasformazioni, le sue richieste, il suo “reclamare” persone che posseggano alcune doti fondamentali per poter dare il loro contributo.

Qui occorrerebbe aprire il tema della differenza tra hard and soft skills, per usare le brachilogiche parole inglesi, oppure definendole competenze cognitive e socioemotive. Dentro una disamina così precisa e che ha il grande pregio di pulire da pregiudizi e facili banalizzazioni, ancora si vede a occhio nudo la difficoltà nel definire ciò che fa di un adulto un adulto, rende un lavoratore un vero lavoratore, rende un uomo generatore di bene comune, società, costruzione, ricchezza, bellezza.

Ci permettiamo un’ipotesi: forse nella realtà dell’esperienza non esistono le contrapposizioni teoriche che siamo abituati a tracciare, e la creatività umana ne è un esempio solare. In ogni scoperta, invenzione, progresso, miglioramento, arricchimento, innovazione, espressione artistica…in ogni gesto umano è potenzialmente contenuto tutto il passato disponibile all’individuo e un elemento che lo riattualizza creativamente, che lo rende un avanzamento per il fatto stesso che è stato messo in opera. Nel momento in cui all’uomo è stato possibile comunicare (trasmettere) ad altri la propria scoperta attraverso il linguaggio, è stato possibile pensarla come possibile e passibile di modifiche, superamenti, critiche e reinvenzioni. La scimmia non conserva il bastone che pure ha trovato utile per raggiungere le banane, e non lo suggerisce al proprio simile perché lo usi. Essa non lo “pensa” come strumento in quanto tale, ma solo come utile alla reazione efficace allo stimolo rappresentato dal cibo. L’uomo vive invece collocato nella categoria della possibilità: mentre usa uno strumento lo guarda pensando alle possibilità che esso avrebbe proiettandosi in un futuro fatto di altri contesti diversi. Rimane sinteticamente espressiva di questo la scena iniziale chiamata Dawn of Man del capolavoro di Kubrick 2001 Odissea nello Spazio. L’uomo simbolizza, trattiene nella memoria e pensa nell’immaginazione del possibile. François-Xavier Bellamy nel recente I diseredati, ovvero l’urgenza di trasmettere, ha ben sintetizzato questo parlando dell’uomo come «essere della mediazione». Mentre l’animale vive nell’immediatezza dello spazio tra stimolo e reazione, e non ha bisogno alcuna educazione o formazione di competenze per poter raggiungere l’autonomia, l’uomo nasce stranamente senza “istruzioni”, e ha bisogno che lo si guardi, gli si parli, lo si pensi, lo si curi, gli si insegni tutto con la presenza e con l’accompagnamento.

La creatività nasce da qualcosa che ci precede, che per questo può essere ri-pensato. Le possibilità stesse dell’immaginazione non si mobilitano finché si incontra qualcosa di attuale, di raggiunto ed espresso, nella natura o nella cultura, che rende possibile il pensare a qualcosa oltre esso. Ma giustamente il nozionismo e l’enciclopedismo sono pericolosi, come ha ben sintetizzato Dewey: quando la conoscenza «è trattata come fine a se stessa allora il fine diventa l’accumularla e l’esibirla quando ce n’è bisogno. Questo ideale statico, congelato, è ostile allo sviluppo dell’educazione. Non solo lascia inutilizzate delle occasioni di pensare, ma sommerge il pensiero […] Gli allievi che hanno arredato la loro mente con ogni specie di materiale che non hanno mai adoperato intellettualmente saranno certamente intralciati quando cercano di pensare». Ma senza materiale, senza immagini, parole, suoni, senza osservazione e attenzione per il reale, senza esperienza e senza che questa sia custodita dalla memoria, non si dà reale creatività.

Ma occorre affrontare il punto più ostico: il peso della tradizione, del passato. Assistiamo da insegnanti al fatto che gli studenti siano più ingaggiati quando sono loro a scoprire direttamente, personalmente, in una “esperienza” i contenuti didattici. Questo è sicuramente vero, ma anche in questo non si può non osservare come appunto nell “esperienza” non ci sia mai totale scissione tra ciò che è evidenza diretta e ciò che è conoscenza indiretta, basata cioè sulla testimonianza altrui in varie forme: testo, immagine, racconto, schema, illustrazione, documenti in senso lato. Come acutamente osserva ancora Bellamy, non possiamo uscire dal ciò che ci è stato consegnato dal passato, se non altro perché per farlo staremmo usando ancora le parole, il linguaggio che non è frutto della nostra evidenza bensì del passato condiviso, al quale dobbiamo il fatto stesso di poter pensare. Noi «siamo parlati dal linguaggio», come ha detto Heidegger. Senza linguaggio non c’è pensiero compiuto. Nella creatività possiamo parlare di pensiero per immagini ma, appunto, ne parliamo. Ma senza dover ricorrere a questo ragionamento, non possiamo non osservare come lungo tutta la storia dell’uomo la creazione del nuovo sia avvenuta in quel modo paradossale per cui occorre tutta la montagna del (proprio) passato come condizione necessaria ma non sufficiente, sulla quale nasce, in modo ultimamente misterioso e gratuito, l’intuizione creativa. «La tradizione serve solo per innovare» ha detto Munari.

Ma chiarite che possano essere le condizioni necessarie all’accadere della creatività ci si parano davanti altre domande: la creatività è una competenza? Si tratta di una competenza cognitiva o socioemotiva? Hard or soft? Può essere insegnata, formata?

Come dice la ricerca di Fondazione Agnelli, grossomodo possiamo identificare «la competenza con la capacità degli studenti di usare la conoscenza fuori del luogo dove è stata acquisita, quindi in situazioni extrascolastiche, cimentandosi in compiti non soltanto inediti ma anche autentici o reali[…]». Quando siamo competenti è perché sappiamo affrontare una situazione inedita data «mobilitando e orchestrando» le nostre conoscenze e abilità in modo da rispondere alla problematica postaci davanti. Come interviene in questo la creatività? Non è difficile vederlo: ogni soluzione è creativa per sua natura, perché risponde ad un problema che è sempre inedito in quanto si è “posto di nuovo”. Non esiste nell’agire umano la pura ripetizione di procedure, se non a livello superficiale, poiché ciò che è in costante cambiamento è il soggetto stesso dell’azione. Dal cambiare la gomme dell’automobile al creare il soffitto della Sistina la differenza è di grado, non di natura.

È inoltre interessante notare la tendenza umana a voler conoscere il senso totale della propria azione particolare, così nella didattica per competenze si parla di compiti «reali», «autentici», «significativi», che abbiano cioè un transfer, una possibilità di rannodarsi a nessi di senso presenti nel mondo reale. In italiano (e non solo) il senso è spesso espresso con la metafora del disegno: i particolari hanno senso in un disegno solo se rapportati al tutto che “regge e governa”. L’abitudine a comunicare, spiegare, pensare attraverso l’immagine, il disegno, la rappresentazione, è innata, ed è ciò che attiene a quella parte del cervello deputato alla rappresentazione, all’intuizione, alla visione, alla sintesi. Come ha ormai da tempo mostrato Betty Edwards, l’attività del disegnare è in grado di attivare la facoltà della visione, nel senso percettivo e nel senso della rappresentazione mentale. Forse anche la capacità di vedersi collocati in situazioni differenti dalle condizioni in cui si è attualmente dipende dalla capacità di immaginare possibilità inedite. Il ruolo della pratica artistica, fatta di conoscenza e azione, possiede anche questo non marginale valore.

Qui potremmo collocare una prima valenza della creatività nelle competenze trasversali attinenti alla mobilità e flessibilità del lavoro: sarà sempre più necessario reinventare se stessi a partire da condizioni e contesti in mutamento.

Se nel pensiero della didattica per competenze si parla di ricerca e azione: «La molla che attiva il pensiero si trova non in un archivio di nozioni memorizzate, per quanto anch’esse necessarie, bensì in un’esperienza significativa vissuta dal soggetto in apprendimento, un’esperienza da cui emergono problemi da risolvere prima con la comprensione poi con la ricerca e con l’azione, infine con la valutazione delle conseguenze dell’azione.». Tra ricerca e azione non c’è una continuità senza salti ma proprio quella capacità creativa che occorre allenare. In essa entra in gioco un ultimo aspetto fondamentale: la fiducia in sé stessi. Sul piano della psicologia del soggetto ha un’incidenza fortissima la stima di sé che si riceve soprattutto durante i primi anni della crescita dalle figure educative più forti: genitori, insegnanti. Daniel Pennac ha raccontato in una recente videointervista apparsa sul web che, avendo spesso bisogno di mentire per paura del proprio professore quest’ultimo, capita la situazione, gli propose data la grande immaginazione dimostrata nell’inventare scuse, di scrivere un romanzo. Non gli avrebbe chiesto altri compiti o esercizi, ma solo che ogni settimana gli consegnasse dieci pagine. Questo trasformò il peggiore alunno passivo in un alunno attivo, disponibile ad imparare, che è diventato a sua volta scrittore e professore. C’è qualcosa che possa impedire di incominciare a guardarci così?

Pubblicato da Francesco Fornasieri

Teacher of Art and Ph.D Student at University of Bergamo. I got my degree in Painting and Visual Arts at Brera’s Academy of Fine Arts- Milan. My research interests range from the role of art in the development of mind in forming the role of creativity in the world of contemporary work.

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