Nel dono la nostra storia. Stefano Zamagni in Cometa

Pubblichiamo l’intervento di Stefano Zamagni sul tema “Nel dono la nostra storia. L’economia civile, una tradizione centenaria di cui essere fieri”, in occasione dell’incontro organizzato dalla Fondazione Comasca e ospitato in Cometa lo scorso novembre 2016. In questa occasione il prof. Zamagni ha potuto conoscere e apprezzare l’esperienza di Cometa. Ne pubblichiamo i contenuti, dato il loro valore culturale e scientifico, al servizio della comunità.

Sono veramente molto lieto di essere con voi, esprimo dunque gratitudine a Bernardino Casadei che mi ha mandato l’invito qualche tempo fa di partecipare a questo ciclo d’incontri. Non ero mai stato, non conoscevo Cometa, lui non me ne aveva parlato e quindi, io, come facevo a conoscerla? Nei pochi minuti che ho avuto a disposizione per visitare le cose essenziali, sono rimasto veramente abbacinato, direbbero i toscani, o affascinato, da un altro punto di vista. Quindi questo aggiunge la gioia oltre che d’incontrare persone, alcune delle quali già conoscevo e altre che ho imparato in questi pochi minuti a conoscere. Esprimo quindi gratitudine alla Fondazione di comunità Comasca per aver voluto pensare di organizzare questo ciclo su temi che non sono comuni, come ha ricordato adesso il nostro moderatore.

Io affronterò l’argomento che mi è stato assegnato che è appunto: «Nel dono la nostra storia», partendo da una domanda: qual è il senso delle Fondazioni di comunità? Da dove sono nate e perché sono nate? Prima però una precisazione, mi complimento con chi ha voluto specificare nel titolo la parola “dono”. Perché voi sapete che una confusione di pensiero che stenta a scomparire è quella che tenda a identificare il “dono” con la “donazione”, questo è gravissimo, perché la donazione è un oggetto, il dono è una relazione interpersonale. Cioè, quando io faccio una donazione vuol dire che mi privo di questo orologio e lo regalo a te, questo è il dono come vulus, che il latino vuol dire “regalo”. Quindi la donazione è un qualcosa che può essere denaro, oppure una cosa di cui uno si priva per darlo ad altri. Il dono invece è molto di più, è una relazione intersoggettiva, quando io mi dono a te, quando tra me e te si stabilisce una relazione. Qual è l’esempio più fulgido per far capire, di cui io mi servo per far capire la differenza tra i due concetti che vengono sempre confusi? L’esempio di San Francesco, voi sapete che San Francesco era un imprenditore di successo, era molto bravo, figlio di un grande imprenditore, Bernardone, faceva tanti soldi, perché era bravo, intelligente, aveva lo sbuzzo degli affari, e non era affatto egoista e faceva donazioni ma a chi soprattutto? Ai lebbrosi dell’epoca che allora erano abbondanti. Ma lui non andava mai dai lebbrosi, mandava il suo servo al quale dava cose da mangiare o, a volte, denaro, perché li distribuisse. Quindi, lui faceva donazioni. Poi si converte, e qual è il primo gesto che San Francesco compie da convertito, il primo gesto? Andare dal lebbroso, abbracciarlo e baciarlo. A quel punto viene fuori la sua espressione, dice: «Prima questo mi faceva ribrezzo, mi dava fastidio, e per quello che non lo volevo vedere, ora invece riempie il mio animo». Dov’è la differenza? Poi gli ha dato anche da mangiare, gli ha portato anche da mangiare. La differenza è che il dono trascende la donazione, è molto di più, è là dove io mi metto in relazione con te, con chi è o nel bisogno materiale o spirituale, o è in bisogno di varia natura, e così via. Vedrete che questa distinzione tornerà adesso nel discorso che vado a iniziare e che serve a dare risposta alla domanda che mi sono posto: Qual è oggi, direi, il principio sintetico a priori, direbbero i filosofi, del nuovo modello del welfare, sul quale stiamo, con tanta fatica, marciando? Ora, a parte che il welfare è un affare del 1900, anche nell’ottocento c’erano stati i primi inizi, pensate a Bismarck, nella Prussia Bismarck è stato alla fine dell’ottocento il primo a introdurre l’assicurazione obbligatoria contro le malattie e gli infortuni e altro. Però, quando si parla di welfare, il sistema di welfare, è ovvio che è il novecento il secolo nel quale questo si realizza. Il 1919 è l’anno in cui in America un gruppo d’imprenditori, tra cui Henry Ford, quello delle automobili, Carnegie il re dell’acciaio, Rockefeller il re del petrolio, e altri, firmano tra di loro un patto dal qual nasce quel modello di welfare che da allora si chiama: welfare capitalism, cioè il welfare capitalistico. Qual è l’idea di base? Che devono essere gli imprenditori a farsi carico della situazione di bisogno dei propri dipendenti e dei membri delle proprie famiglie. Quindi qual è il principio che sorregge il welfare capitalism? È il principio – attenzione – di restituzione. Se voi parlate con americano qualsiasi e dite: «Restitution principal», capisce subito. Noi non lo capiamo perché non fa parte della nostra cultura, ma loro lo capiscono. Cioè, l’idea è che l’imprenditore americano: grande, medio o piccolo che sia, sa che una parte dei profitti che ha realizzato li deve restituire alla comunità, perché se lui ha fatto profitti il merito è anche della comunità che ha fornito: persone colte, persone esperte, persone non ammalate, e così via. Quindi fa parte del DNA Americano quello di provvedere a questo. Ora, questa idea è quella che ha dato origine, negli Stati Uniti, a quel fenomeno che è la filantropia. La filantropia non è nata in Italia, è nata in America. Oggi la usiamo perché la parola stessa è greca, filantropia vuol dire: amante dell’uomo, antropos, ma come pratica è un’invenzione squisitamente americana, e lo vedete dal fatto che tutte le Fondazioni americane hanno il nome e cognome del fondatore, di chi inizialmente ha messo i soldi. Voi non troverete mai una Fondazione in America che non ha un nome e un cognome. In Italia invece le Fondazioni bancarie non sono intestate a una persona, sono Fondazioni diremmo istituzionali. Qual è il punto di forza del welfare capitalism? L’efficienza, perché è ovvio che gli imprenditori sanno come gestire le risorse, sanno come evitare gli sprechi, e si capisce il perché. Se voi leggeste l’autobiografia di Ford, Ford dice: «Io applicavo i metodi gestionali della mia fabbrica nel mentre andavo a organizzare una scuola, un ospedale, per i bisogni dei miei dipendenti e delle loro famiglie». Qual è il punto di debolezza? Che il welfare capitalism non garantisce l’universalismo, perché se tu hai la fortuna di lavorare alla Ford hai la copertura, ma se tu lavori da un imprenditore che non ha firmato il patto, perché è un patto firmato non è una legge, evidentemente rimani senza niente. Quindi, il welfare capitalism è questo ed esiste tutt’oggi. Pochi anni fa Obama, dopo tanti anni di tentativi è riuscito, voi sapete, a garantire almeno un minimo d’assicurazione sanitaria a tutti, ma è stato pochi anni fa. Perché l’idea è che il welfare capitalism non essendo universalista tende a dividere la società, però dall’altro lato l’aspetto positivo è che da un lato responsabilizza, cioè tende a creare responsabilità in capo a tutti, ma in particolare agli imprenditori – oh, uso la parola imprenditori nel senso ampio, manager e imprenditori eccetera, la business community – a farsi carico del destino degli altri. L’altro aspetto è l’efficienza, cioè il non spreco delle risorse. Vent’anni dopo, esattamente vent’anni dopo, nel 1939, in Inghilterra un grande economista che si chiamava John Maynard Keynes – che tutti conosciamo – scrive un articolo intitolato: “Democracy and welfare”, democrazia e welfare, nel quale dice – tenete conto che Keynes era un liberale, non era un socialista – dice: «Se il welfare sa da fare deve essere universalista, altrimenti è meglio non farlo, perché un welfare come quello degli americani è pericoloso in Europa, là no». Perché? Perché là c’è di mezzo l’oceano. Guardate che Keynes era una testa grossa, era il più grande economista del novecento, e anche di altri secoli, perché dice: «Guardate che in Europa, a un po’ di chilometri, non molto distante, c’è un uomo che si chiama Stalin – Unione Sovietica – se noi facciamo il welfare capitalism, la nostra società si divide, quelli che non hanno le coperture si aggregano, vanno a lottare per il partito comunista – che allora c’era anche in Inghilterra – e succede che Stalin arriva da noi e ci porta via la libertà». Dunque Keynes conclude dicendo: «Bisogna passare dal welfare capitalism al welfare state», state in inglese vuol dire Stato, quindi è così che nasce il welfare state, che non era mai esistito prima, anche l’espressione non era mai esistita, è lui che l’ha coniata. Tre anni dopo, il 1942, Lord Beveridge, membro della Camera Alta inglese, suo allievo, da un certo punto di vista, fa passare il pacchetto Beveridge, 1942, quando nasce il Servizio Sanitario Nazionale, la scuola gratuita per tutti fino a 14 anni, l’assistenza ai portatori di handicap e la pensione, il sistema pensionistico. Questi sono i 4 pilasti del welfare state: educazione, sanità, assistenza, pensioni. Nel 1942 si era ancora in tempo di guerra, pensate, eppure il Parlamento inglese per la forza e soprattutto per la capacità argomentativa e la dialettica di Keynes, che pure era membro dei Lord – era imbattibile, se vivesse oggi, nei dibattiti farebbe fuori tutti, perché aveva una capacità argomentativa e dialettica inimitabile. Qual è allora il punto di forza del welfare state? Che garantisce l’universalismo, perché lo Stato è l’unico soggetto pubblico che è in grado d’imporre l’universalità del trattamento. Qual è il principio regolativo del welfare state? È il principio di redistribuzione. Quello di prima era di restituzione, adesso è di redistribuzione. Qual è lo strumento? Prima, quello di prima era la filantropia, ora lo strumento diventa la tassazione, lo Stato impone le tasse e con il ricavato finanzia: scuola, sanità, assistenza e pensioni: i 4 grossi capitoli del welfare. Quindi, il welfare state nasce, ripeto, in Inghilterra, si diffonde nel resto d’Europa; in gradi successivi si realizzano modelli diversi, quattro: c’è il modello inglese, il modello scandinavo, il modello europeo continentale e il modello mediterraneo – il nostro – ; Italia, Francia, Grecia, Spagna, Portogallo, eccetera. Ci sono differenze tra queste 4 versioni, però il principio base è lo stesso per tutti, il welfare, cioè è lo Stato che avvalendosi della sua podestà, quindi della sua capacità coercitiva, obbliga i cittadini a pagare le tasse in proporzione ai loro averi per finanziare i servizi di welfare. Quindi il punto di forza è sicuramente l’universalità. Bisogna riconoscere che è stata vincente, perché se non fosse stato così noi oggi, stasera, non saremmo qua, perché guardate che l’Unione Sovietica era una cosa grossa, perché noi, chi ha una certa età si ricorda che l’Unione Sovietica a partire dagli anni sessanta, settanta, quando aveva già cominciato a declinare, fino a tutti gli anni sessanta l’Unione Sovietica era più forte degli Stati Uniti. Chi è il primo ad andare nello spazio? È stato un sovietico, non è stato un americano. Per dire che la tecnologia, eccetera, era molto più avanti, e la paura di perdere la libertà, e con libertà la democrazia era notevole. Direi che il welfare state ha salvato il mondo occidentale da un rischio che incombeva, soprattutto noi italiani, sapete nella storia dell’Italia l’importanza che ha avuto il Partito Comunista Italiano fino al ’72, quando c’è stata la famosa svolta, eccetera, eccetera. Ma qual è il punto di debolezza del welfare state? Duplice: il primo è l’insostenibilità finanziaria, vuol dire che i costi dei servizi di welfare nel corso del tempo hanno un andamento a progressione geometrica– voi potete immaginare nella mente se ci fosse qui una lavagnetta – è una curva che rappresenta l’andamento del tempo e dei ricavi, ricavi ottenuti dalla tassazione, è una semiretta che parte dall’origine. Più il tempo passa, più la differenza tra le due aumenta, e questo a prescindere dalla corruzione, a prescindere dalla malagestio, a prescindere da tutte le cose che quotidianamente facciamo lettura sul giornale. A prescindere. Quelle sono delle complicazioni. Ma anche se non ci fosse questa inefficienza, rubarizi vari, eccetera, il problema esiste, e questo spiega perché a partire dal 1980 i debiti pubblici hanno cominciato ad aumentare. Voi sapete che l’Italia fino alla fine degli anni settanta non aveva il debito pubblico – bisogna saperle queste cose, io le imparo a casa siccome mia moglie fa la storica economica, la Vera fa la storica economica, è lei che mi da tutte le informazioni, perché c’è un po’ di divisione del lavoro, in compenso lei non sa far da mangiare, perché essendo di Milano è un disastro, allora lo devo fare io – questa è una cosa che va sempre ricordata, che l’Italia ha ricostruito il proprio Paese distrutto dalla guerra senza creare debito pubblico, perché i governanti di allora, fino agli anni settanta, erano persone rispetto alle quali c’è solo da togliersi il cappello, e, per fortuna che gli abbiamo avuti, è inutile fare nomi perché li conosciamo tutti. Quindi, quando qualcuno mi dice: «Il debito pubblico in Italia – che oggi è quello che sapete che è, il 130% del P.I.L. – è perché …», non credete a queste bugie, perché fino a tutti gli anni settanta l’Italia ha saputo ricostruire il proprio Paese, realizzare il miracolo economico, senza fare debiti. Giusto? A partire dai primi anni ottanta invece, se voi guardaste la curva, la curva ha cominciato a crescere, una delle ragioni di quest’aumento è esattamente legato alla insostenibilità finanziaria del modello di welfare state. Questo è il primo punto, diciamo, di debolezza del welfare. Ma c’è un secondo – per me, almeno, più importante – che il modello di welfare state – il cui merito lo abbiamo già detto – ha avuto questa grande rovina che è stata quella di deresponsabilizzare le persone, perché si diceva: «Ci pensa lo Stato». Tu vedi uno per la strada che muore: «Cosa c’entro io? Ci penserà: lo Stato, la Croce Rossa, i Servizi Sociali del Comune. Io pago le tasse, mi sono già liquidato». Allora voi capite che, questo ai fini del nostro discorso di stasera, questi modelli di welfare state sono valsi in Europa, ma soprattutto nell’Europa mediterranea di cui noi facciamo parte, ad espungere, cioè a espellere dal lessico, ma soprattutto dalla prassi, il principio del dono come gratuità. Questa per me, non che l’insostenibilità finanziaria non sia un problema serio, da economista non poteri negarlo, però credetemi, è meno importante, perché i debiti si fanno e si possono pagare, ma quando io cambio la mappa cognitiva delle persone e l’anima delle persone, non c’è che da aspettare tanto tempo perché si ricreino le condizioni. È accaduto che ci siamo allevati la “serpe in seno”, cioè questo modello statalista di welfare state, e in Italia è stato molto forte, ha delegittimato l’azione pratica del dono come gratuità, perché se lo Stato pensa tutto a lui: «Dalla culla alla bara», la famosa frase di Beveridge, «Dalla culla alla bara» perché la gente si dovrebbe organizzare in qualche modo? Questo ci aiuta, ad esempio, a capire perché in Italia le cosiddette organizzazione di Terzo settore, o come qualcuno preferisce chiamarle non profit – concetti sbagliatissimi, teoricamente sbagliati, e dopo dico il perché, però per il momento usiamo quest’espressione – sono cominciati molto più tardi che non, ad esempio le Fondazioni in America già all’inizio del novecento, la Fondazione Rockfeller venne creata nel 1921, da noi si è cominciato a parlare di Fondazioni e di non profit negli ultimi 30/35 anni, poi noi – siccome siamo italiani – siamo bravi a recuperare e accelerare. Ma perché, si diceva, l’ente pubblico: Stato, Regione, Comuni, pensa lui a distribuire la spesa, a garantire l’universalità del trattamento, e così via. Ecco, allora, il secondo punto di debolezza del welfare state, che forse il soggetto, in buona fede, non lo si voleva cambiare – voglio sperare, altrimenti sarebbe diabolico – si è fatto credere che ognuno bastava per sé, ecco la logica dell’individualismo, tu basta che paghi le tue tasse, rispetti i tuoi doveri di cosiddetta “cittadinanza”, e al resto ci pensa lo Stato. Guardate che questo ha avuto un impatto, e lo sta ancora avendo. L’Italia è lunga, e lo sapete, qui siamo al nord; provate ad andare al sud a parlare di queste cose, vai a vedere, la gente dice: «C’è una disgrazia naturale? Ci deve pensare lo Stato». Io mi ricordo ancora di quando ci fu il terremoto in Sicilia, una scena, arrivavano i volontari dal nord, magari anche da Como, per spalare e aiutare, e la gente del posto stava lì a guardare. Io chiedo a qualcuno: «Ma perché? Guarda che loro non sono mica statali, sono volontari», «Come sono volontari? Se sono qui è perché li ha mandato lo Stato». Allora dico: «Brutto “patacca”, vai a parlare con qualcuno, digli se lui è statale o no». Cioè, non riuscivano a capire che ci potessero essere delle persone che liberamente si mettessero in gioco per alleviare la sofferenza, perché l’unico ente è il Governo. Ora, questa situazione ci ha portato, a partire diciamo dal nuovo secolo, 15/16/20 anni fa, non di più, al terzo modello, quello che si chiama welfare society, la welfare society. Qual è l’idea di base? Non è più welfare state, ma welfare society; cioè la società del benessere. L’idea di base del welfare society è che l’intera società, non solo lo Stato, deve prendersi cura, deve prendersi cura di chi, per un motivo o per l’altro, cade nel bisogno. È chiaro che nella società c’è anche lo Stato, quindi la welfare society non è, come dire, un ritorno, come qualcuno avrà pensato, adesso hanno smesso, alcuni statalisti camuffati, è un ritorno al welfare capitalism, no! Però lo Stato non è l’unico che è titolato a occuparsi dei servizi di welfare, ed è questo il motivo per cui si arriva al 2001, quindi 15 anni fa, con l’articolo 118 della Costituzione Italiana. Guardate che quello è stato un evento epocale, è stata cambiata la Costituzione Italiana introducendo per la prima volta in maniera esplicita il principio di sussidiarietà, che prima non c’era. Guardate le date, 2001, perché qualche anno prima già tutta una serie di studiosi, ma soprattutto di operatori, cioè gente come Cometa qui e altre comunità in Italia, andavano praticando esattamente quello che ho detto, e che cioè di fronte a certe categoria di bisogni non è pensabile che la gente possa attendere l’intervento burocratico / amministrativo dell’ente pubblico, che però deve avere un ruolo, ma non può esser l’unico. In questo contesto, sia storico che di sviluppo culturale, sono nate le Fondazioni di comunità. Bisogna che uno poi si chieda: Come mai – lo abbiamo detto prima – è nata nel ’99? Quindi, vedete che i conti tornano, perché non è nata 10 anni prima? Sarebbe stata impensabile, perché i tempi non erano maturi, perché c’era ancora vigente l’idea di cui ho appena fatto parola pocanzi. Ora, la nascita delle Fondazioni di comunità è stata un grande evento, è un grande evento, un grande evento che è un peccato che venga poco ricordato. Viene poco ricordato in Italia per una ragione semplicissima, perché ci sono solo in Lombardia e in Veneto, perché nel resto d’Italia ce ne è qualcuna sparsa, qua e la, ma è una fatica da matti. Perché evidentemente – poi dopo nella discussione se avete domande specifiche sarò lieto di dare risposta – il dato di fatto è che le Fondazioni di comunità sono una cosa di qua, di queste 2 regioni, 2 regioni e mezzo. Però è un peccato, perché la nascita delle Fondazioni di comunità rappresenta il punto d’avvio del terzo modello di welfare che noi chiamiamo la welfare society. Qual è il principio regolativo di questo terzo modello? Ecco che arriviamo al punto, il principio del dono come gratuità. Così come il principio regolativo del welfare capitalism era il principio di restituzione, il principio del welfare state era il principio di redistribuzione, dai ricchi ai meno ricchi, il principio fondativo del welfare society è il principio del dono come gratuità. Ora voi capite che nel dire questo dico delle cose pesanti, io sono consapevole, perché questo vuol dire caricare sulle spalle, credere a questo modello è una responsabilità non da poco. Perché se noi facciamo venire meno la cultura e la prassi del dono, questo modello non si regge. Perché, vedete, il modello di welfare state, fintanto che c’è uno Stato che t’impone – se no ti manda la Guardia di Finanza – a pagare le tasse, in qualche modo te la cavi, ma un modello come questo se viene meno tra le persone che vivono in società quel legame coesivo che è, appunto, la relazione interpersonale che chiamiamo dono, voi capite che rischia di non reggersi. Quindi, ecco perché oggi io vedo, in questo caso lo devo dire da studioso, che c’è un rischio, che non si rifletta abbastanza su questo, e voi avete fatto bene a metterlo a tema in quest’occasione e forse in altre, e così via. Cioè, bisogna far capire che mentre il welfare capitalism va avanti da solo, vedete anche recentemente Bill Gates ha dichiarato che il 95% di tutta la sua proprietà le darà in giro a questi e quest’altri. Ma il 95% non è come quella che avete voi, la sua proprietà è stimata nell’ordine di 90 miliardi di dollari, quindi vuol dire 85 miliardi, ed è la stessa cosa con gli altri, i nomi dei grandi magnati, eccetera, è inutile che li stia a ripetere perché li conosciamo tutti. Quindi, quel modello continuerà sempre e così come il modello di welfare state, fintanto che ci sarà l’ente che chiamiamo Stato ci sarà. La welfare society, che è il modello più avanzato, migliore in assoluto, però ha questo punto di debolezza, che deve nutrirsi di una cultura in primis, e di una prassi in secundis di aiuto, perché se facciamo venire meno questo è un disastro. Ora io, guardate, cultura è una parola importante, ha la stessa radice di “culto”; culto e cultura hanno la stessa radice, vi dice niente questo? Sapete cos’è il culto, cultura è la stessa cosa, non si fa cultura se non c’è un culto, quale che esso sia, uno deve essere libero di scegliere per sé il proprio culto, però mentre tu puoi far formazione, senza il riferimento al culto, non puoi fare cultura se non c’è riferimento al culto, che può essere di un tipo o dell’altro, religioso o laico, ma ci deve essere, altrimenti non è più cultura e diventa erudizione, diventa formazione, o, se volete, istruzione, ecco, che è la nostra scuola. La scuola deve educare, perché per educare ci vuole un progetto, mentre per istruire basta conoscere la matematica, la storia, l’italiano, il latino, e tu lo ripeti, li allievi lo devono imparare se no li bocci, quindi c’è la minaccia. Ma per far cultura non puoi minacciare. Non si fa educazione con la minaccia, perché la minaccia ottiene l’effetto contrario, chiusa la parentesi. Ora dicevo, qual è oggi il problema che è di fronte a noi, cioè a dire, quali sono i rischi che un approccio come quello che, di cui si sta parlando, andrà a conoscere? Il primo la difficoltà viene – bisogna essere onesti – dalla pubblica amministrazione, perché la pubblica amministrazione non capisce e quindi non accetta il principio del dono. Pubblica amministrazione vuol dire burocrazia, io non sto parlando del singolo burocrate, perché le singole persone con cui parlo me lo dicono, soffrono, mi dicono: «Quando io devo andar là a timbrare il cartellino, mi devo togliere la mia personalità, mi devo spersonalizzare perché devo obbedire a delle regole che magari io non accetto, ma lo devo fare, se no mi sbattono via». Il punto è che, c’è una bellissima frase di William Penn, sapete chi era William Penn? Era un esploratore inglese del 1700, è quello che esplorò la Pennsylvania, la Pennsylvania che è uno Stato, prende il nome da Penn, e la sua frase era: «Lasciate che la gente creda di governare e sarà governata». Capisci? Perché lui era inglese e andava a governare a quelli là e, allora, furbo, disse: «Io gli faccio credere che sono loro ad autogovernarsi, però li governo io», perché era come il Governatore, la Corona Inglese gli aveva dato questo potere. Oggi questa frase di Penn si applica pari pari alla nostra pubblica amministrazione, per cui tu hai il Sindaco che cerca di parlarti, ti viene, eccetera, però il bastone del comando lo deve tenere lui, che vuol dire: Le decisioni su come intervenire, su chi intervenire, quali tipi di servizi prioritarizzare, cioè le priorità le definisce la pubblica amministrazione. Poi, dopo, per l’implementazione si va a cercare la collaborazione con il volontariato tal dei tali, con la cooperativa tal dei tali, e si fanno le convenzioni. Guardate che su questo, in passato, con diversi altri colleghi ho dovuto, ho dovuto litigare, ad alcuni gli ho spaccato anche la testa. Cosa dovevo fare? Quando uno non capisce, dopo un po’ mi stufo e gli spacco la testa. Però la ricucio sempre e dopo ci metto un po’ di sale dentro. Ma anche con professori universitari che dicono: «Facciamo il welfare mix» l’avrete sentito. Ma non capisci che quello è un cavallo di Troia? È una trappola. No, non lo capiva, e dice: «Ah, ma sai, il Comune ci dà questo…». Appunto, ti da, ti compra! Nell’Antico Testamento un piatto di lenticchie, vi ricordate l’episodio del piatto di lenticchie? Qua è evidente che il pubblico amministratore, oggi, pur di ottenere il consenso ti da anche delle cose interessanti, ti da anche dei soldi, ti fa far questo, però non può essere questo il modello di welfare society, perché welfare society vuol dire che le decisioni riguardanti le priorità e i modi di soddisfacimento dei bisogni, devono essere prese congiuntamente, devono essere prese congiuntamente anche dall’ente pubblico, ma dai soggetti della società civile portatori di cultura, oltre che dal mondo degli affari. Poi questo principio, come forse alcuni presenti ne avranno già sentito, si chiama principio di sussidiarietà circolare. Vedete, anche qui, no, tutto è in buona fede, ma tanti che hanno imparato la sussidiarietà orizzontale non han capito niente, perché la sussidiarietà orizzontale è stato il cavallo di Troia; è stata la “droga”, la “bustina gratis” che ti hanno dato per farti stare zitto, perché sussidiarietà orizzontale vuol dire che io sono il Sindaco, tu sei il presidente di una cooperativa sociale, e dico: «Bene, allora, io con la convenzione ti do questi soldi e tu gestisci quella roba là», un asilo, eccetera, quella è sussidiarietà orizzontale. Per molti altri si è andato avanti: «Sì, oh! che bello,!». In effetti, rispetto a prima, era un avanzamento, oggi, ci siamo capiti, che questa è una fregatura, scusate l’espressione, perché la vera sussidiarietà è quella circolare, nella quale, cioè, attorno a un tavolo triangolare tu devi mettere l’ente pubblico, i soggetti del mondo dell’impresa – come il vostro presidente, qua, che è un imprenditore e capisce certi discorsi – e il mondo della società civile, la Fondazione di comunità, per intenderci, e tutte le altre, e questi tre soggetti sulla base di definiti protocolli devono discutere, prima, e deliberare sulle priorità; se è meglio intervenire in quella direzione o in quell’altra, meglio fare questo o quello e, in secondo luogo, di decidere i modi di gestione. Perché se altrimenti le priorità le fissa l’ente pubblico, e poi ti fa eseguire a te, voi capite che si è perso metà dell’impegno. Perché, chi conosce i veri bisogni della gente? Chi sta chiuso nell’ufficio dalla mattina alla sera, o chi sta in mezzo alla gente? Questo è un problema di teoria dell’informazione, e così via. Però, adesso, le cose stanno migliorando. Lo so, a scarso di equivoci, la sussidiarietà orizzontale sta un passo avanti rispetto alla situazione precedente, quando faceva tutto la pubblica amministrazione, però è chiaro che, andando avanti col tempo, ci siamo resi conto che questo non può bastare. Può, in certe situazioni, si può accettare, ma non può essere il modo d’interpretare il modello di welfare society, perché voi capite che la pubblica amministrazione se decide le priorità, deve decidere sulla base di certi criteri che vengono fissati in via politica. Non c’è bisogno che adesso vi faccia vedere le implicazioni, perché tutti lo capiscono, ma i bisogni delle persone, di varia natura, non possono dipendere dai colori dei politici dell’amministrazione, eh! Insomma, io ricordo, io adesso manco da Bologna da un po’ di anni, ma quando ci fu il cambio, l’unico esempio della storia è quello bolognese, è sempre stata governata dai partiti di sinistra, una sola volta vinse Guazzaloca, ed è lì che è stata, è passata alla storia, perché con la Giunta Guazzaloca lui stracciò le convenzioni precedenti e le fece con altri. Cos’è successo? Io vivevo lì, partecipavo, la gente delle diverse cooperative sociali si picchiavano fra di loro, perché quelli che erano rimasti senza convenzioni imprecavano contro i nuovi, dicevano, «Ci avete portato via il lavoro, anche noi siamo figli di Dio e vogliamo lavorare», cioè, vogliamo spaccare la società mettendo l’uno contro l’altro? Questa è guerra civile, sapete? E chi la alimenta si carica di una pesantissima responsabilità di fronte a qualcuno. Questo è il punto, perché io non posso far dipendere, la società civile non è la società politica, nella società politica tu hai la destra, il centro, la sinistra, il su, il giù, eccetera. Ma la società civile non ha quella logica. Se tu invece fai dipendere la firma delle convenzioni dal colore politico di chi vince la competizione elettorale, distruggete, perché poi alimentati gli odi, gente che prima erano amici si cominciano a odiare, a farsi i dispetti, e così via. Tanto è vero che dopo, finita la Giunta Guazzaloca, è ritornata la Giunta di sinistra, e sono ritornati quegli altri, una cosa inaudita. Ecco, allora capite qual è oggi il punto, se noi vogliamo marciare verso un modello di welfare society dobbiamo capire che il metodos, il metodos in greco significa: ”la via”, la via che conduce ad un certo obiettivo, deve essere quello di chiedere e ottenere, perché si ottiene se si chiede, alla pubblica amministrazione di adottare il modello della sussidiarietà circolare. In alcune parti d’Italia, in alcuni piccoli Comuni si sta facendo, e i risultati sono veramente notevoli, veramente notevoli; gente che si converte persino, diciamo, ma io pensavo che e invece, eccetera. Allora qui dobbiamo insistere, e il secondo, diciamo, non un rischio ma l’avvertenza di cui dobbiamo tenere conto è quello a cui ho fatto riferimento, e cioè bisogna che si alimenti di più la cultura del dono, invece, se voi vedete, nei corsi di formazione, di tutti i tipi, nella nostre organizzazioni non profit, qual è il contenuto? Come s’interpretano le leggi, come si deve far quello, cose giustissime, che vanno fatte, ma si può ridurre a quello? Ogni tanto mi chiamano i vari centri servizi del volontariato, e io mi meraviglio, e dico: «Ma, scusate, siete qui e state replicando il modello peggiore delle scuole superiori, dell’università! Ma questa gente non deve mica fare l’esame, sapete, alla fine». È chiaro che ci vuole qualcuno che se ne intenda di contabilità, ci mancherebbe altro, ma puoi ridurre la vita di un’associazione soltanto a questo tipo di conoscenza? Avete mai visto la gente che si mette assieme solo in vista dell’efficienza? Io non l’ho mai vista, perché l’efficienza ci vuole, ma non può essere l’unica direttrice, qui ci aiuta una bellissima metafora di Platone quando nel Fedro, che è il titolo di una delle sue opere principali, scrive: «Il solco sarà diritto se i due cavalli che trainano l’aratro procedono con la stessa andatura». Nell’antica Grecia l’aratro era trainato dai cavalli, non dai buoi come da noi. Se un cavallo correva più forte dell’altro il solco piegava o a destra o a sinistra e non c’era il raccolto, perché il raccolto, basta vedere i nostri campi, i solchi son dritti. Allora, in questo caso nella parabola platonica i due cavalli sono, l’efficienza e, cioè, la capacità e la competenza, ma ci vuole anche l’altro cavallo. Se noi invece coltiviamo, o alleviamo, o alleniamo, soltanto il primo cavallo e ci dimentichiamo del secondo, voi capite che quel modello di welfare society di cui sto parlando o non potrà realizzarsi appieno, o darà dei risultati perversi. Ecco quindi qual è la seconda, diciamo, avvertenza, e devo dire che rispetto a questo secondo obiettivo c’è una grande responsabilità, di chi? Della categoria a cui io stesso appartengo, dei così detti “intellettuali”, dei così detti “professori”. Lo so che questo va in controtendenza, però è uno scandalo, le università che pure si chiamano “cattoliche” fanno schifo, perché ti insegnano tutte le cose efficienti per aumentare la produttività, però andate a vedere se insegnano qual è la natura propria del principio del dono, e allora che gioco giochiamo? L’università è l’istituzione che è nata storicamente per produrre il pensiero, il pensiero pensante, non solo il pensiero calcolante. Cos’è il pensiero pensante? È il pensiero che ti indica la direzione di marcia, il pensiero calcolante è quello che ti aiuta a risolvere i problemi, cioè a calcolarli, e ci vogliono tutti e due. Noi però abbiamo sguarnito negli ultimi decenni il pensiero pensante, e questa è una grande pecca delle nostre università, anche quella di matrice cattolica, che si denominano tali, dove non si produce più pensiero pensante. Io sfido qualcuno a dimostrarmi il contrario, anzi, facciamo subito una scommessa così divento ricco, perché tanto sono sicuro di vincerla io la scommessa, perché se parlo è perché so, questo è il motivo per cui recentemente quello la vestito di bianco, che si chiama Papa Francesco, che è un po’ strano, avete visto cosa fa… In un incontro chiede, c’era il Consiglio dell’Educazione Cattolica in Vaticano, e dice: «Ma quante sono le università cattoliche nel mondo?». Il segretario del vescovo Zani dice: «Ah, Santità, sono 1789 nel mondo», «Ma che cosa producono?», avrà capito tutto, cosa producono dal punto di vista dell’identità cattolica? Non producono un bel niente, perché si sono messi a fare la gara con le altre. Chi ha detto che bisogna scrivere i libri, bisogna andare sulle riviste? Ma se tu rinunci all’identità di un’università che si chiama “cattolica” su quel piano, fra un po’ non ci sarà più bisogno, che bisogno abbiamo? Vorrei che qualcuno mi dimostrasse il contrario. Questo era un esempio, come nota a piè di pagina. La terza, infine, non difficoltà ma problema nei confronti del quale dobbiamo, è quello che riguarda la stessa riforma del così detto Terzo Settore che, come voi sapete, nel maggio scorso il Parlamento Italiano ha licenziato. I Decreti Legislativi stanno per essere emanati, il prossimo sarà quello sull’Impresa sociale, Gigi Bobba, che è il Sottosegretario, ci informa che sicuramente prima di Natale uscirà, dopo uscirà quello sul volontariato con quello sul Servizio Civile, poi il Decreto sulle Fondazioni, eccetera, anche quello di comunità, e quindi il tempo è limite entro il maggio prossimo, perché la legge dice: «12 mesi dalla promulgazione». Allora, lì occorre anche su quello aprire un tavolo, perché la riforma del maggio scorso è una buona riforma, è ovvio che si poteva far meglio su questo o su quel punto, però, onestamente non si può dire che sia una riforma sbagliata, però voi sapete che in Italia la prassi giuridica è tale per cui le Leggi contano poco, contano molto di più i Decreti Attuativi, cioè i regolamenti che servono ad applicare i principi della Legge ai casi concreti, e sono quelli che stanno per uscire. Allora, su questo occorre vigilare molto, perché, come potete immaginare, le varie lobby sono già all’opera da diversi mesi, è dall’estate, l’argomento è importante, questi qui hanno fatto fatica, non hanno fatto la vacanza per fare lobby. Lo dico scherzando ma è la verità, Gigi Bobba è molto bravo perché lo dice, dice: «Io qui ho la fila, tutte le settimane, di chi vuole che nel Decreto Legislativo venga messo questo o quell’altro, o quell’altro, eccetera.», e questo è un problema serio perché il rischio di uno snaturamento della iniziale, diciamo, impostazione ci può essere. Perché dico questo? Perché se noi vogliamo andare verso la welfare society bisogna che il principio del dono, il principio che non può per forza di cose essere imposto, venga però riconosciuto, perché se nelle regole attuative non si parla mai di queste cose e non si fa riferimento a questo, e i criteri sulla base del quale si valuta la performance, la performance si dice i risultati, no? Devono essere quelli dell’efficienza e della produttività, voi capite che, come ormai i teorici della teoria dei giochi sanno ad abundatia, con l’andare del tempo questi spiazzano le altre motivazioni. Voi sapete che c’è un risultato forte che ormai è stato ampliamente confermato, che se voi in un gruppo mettete dei soggetti opportunisti e dei soggetti non opportunisti, perché alimentati dalla cultura del dono, e l’organizzazione di quel gruppo – il gruppo può essere un’impresa come può essere una cooperativa, non importa – e l’organizzazione, cioè le regole di governance di quell’organizzazione sono tali da favorire gli opportunisti, dopo un po’ quelli che non sono opportunisti devono alzare le braccia e andare via, questo è il punto. In altre parole, c’è una grave responsabilità, quando qualcuno mi dice: «Eh, va bé, io lascio lì libero uno di essere opportunista…», no, lo so anch’io che bisogna lasciar libero, ci mancherebbe altro, ma tu se hai una responsabilità di governo, di governo dell’organizzazione, devi fissare le regole interne di funzionamento della tua organizzazione in maniera tale che “i lupi non si mangiano gli agnelli”, quello che avviene quasi sempre. Per forza, perché anche nel nostro mondo s’infiltrano gli opportunisti, è vero o non è vero? Li conoscete? Io ne conosco tanti, avendo fatto il presidente dell’agenzia nazionale li ho visti, ho una lunga lista. Allora, io non mi scandalizzo, cioè non dobbiamo cadere nel moralismo. Uno deve, io rispetto uno che dice: «Io sono un opportunista», però voglio che tu lo dica, tu devi dire: «Io sono un opportunista, io sono qui solo per fare i miei interessi», allora, se tu me lo dici io ti rispetto e non ti discrimino, però, ovviamente, non ti metto nella condizione di danneggiare gli altri, perché gli opportunisti, perché sono pericolosi? Perché loro si camuffano da agnelli, mentre sono dei lupi, questo è il problema, perché se io so che tu sei un lupo so come difendermi. Se invece io penso che tu sia un agnello, ovviamente tu mi circuisci, la furbizia, lo sappiamo, è cosa seria e alla fine ci casco. Ora capite che questo è il problema più serio di quanto lo si creda, perché il rischio, ripeto, è che in questi Decreti Legislativi vengano inseriti delle regole pari, per cui, quello che ho appena detto viene esaltato, adesso stiamo a vedere. Ovviamente io ho già detto al sottosegretario Gigi Bobba e ai suoi collaboratori, che se avviene questo io gli “spacco la faccia”. Lui lo sa che io picchio, e lui lo sa perché gli e le ho date anche in passato, perché io non posso stare zitto, non posso stare zitto, non posso io accettare che questi a Roma si formino dei comitatini, si mettono d’accordo fra di loro, ognuno copre le spalle dell’altro, e così via. E capite che questo, evidentemente, non può passare se c’è un minimo di coscienza civile in un Paese come il nostro. Ma tanto – sto finendo e mi avvio alla conclusione – vedete questi sono tre, che non sono rischi nel senso tecnico del termine, però sono avvertenze rispetto alle quali noi dobbiamo rigirarle per chi ha a cuore l’obiettivo di cui stiamo parlando. Primo, bisogna che facciamo, insistiamo di più, per dare adito concreto e applicazioni concrete al principio di sussidiarietà circolare, perché la nostra società civile non ne può più di essere telecomandata da un dirigismo statalistico che è una cosa allucinante. Secondo, bisogna alzare il tasso di acculturazione, però ho detto cultura non formazione, quella si fa già e si fa bene, si fa bene, e si deve continuare a farla, ma io ho parlato di acculturazione, perché certi concetti non è che siano difficili, però bisogna che qualcuno li spieghi, perché mica tutti sono tenuti ad avere le stesse doti, le stesse capacità, eccetera, la divisione del lavoro c’è apposta per questo. Terzo, bisogna fare in modo che l’assetto istituzionale sia tale da consentire esattamente una parità effettiva di trattamento, non che chi ha fatto la scelta libera di praticare il dono venga quasi deriso, o venga addirittura emarginato, questo non può essere accettato, perché un Paese civile non può accettare forme di discriminazione di questo tipo. Chiudo dicendo, uno potrebbe dire: «Ma, c’è una prospettiva?», chiaro che c’è una prospettiva, perché, vedete, se c’è una popolazione che, tra tante che si conoscono, ha nel proprio DNA il principio del dono come gratuità è quella italiana. State attenti, perché lo so che ci sono i mestatori a far i cattivi maestri, che vanno in giro a dire: «Eh, ma gli italiani rispetto al ranking internazionale sono messi male in quanto a donazioni», a donazione io dico, ma non a doni, e c’è una bella differenza. L’italiano medio sapete quante donazioni di denaro fa all’anno in media? 119 euro a l’anno, in media, giusto? L’inglese medio fa 230 euro a l’anno, il doppio dell’Italia, gli Stati Uniti 750 perché la hanno, è il discorso di prima, ma l’Inghilterra il welfare state l’ha inventato lei, come noi. Allora, molti dicono: «Ma vedi che gli italiani sono cattivi, egoisti, perché fanno meno donazioni», e io dico: «Ma quelle sono donazioni, non è il dono». Allora uno dice: «Che differenza c’è?», «Ah, sì, che differenza? Allora ora te la spiego io la differenza», quando uno sta male fisicamente, voi sapete che differenza c’è tra dolore e sofferenza? Che il dolore è un fatto fisico, anche gli animali avvertono il dolore, cioè un cane si azzoppa, cioè ha il dolore, abbaia, la sofferenza è tipica degli umani, la sofferenza vuol dire abbandono. Quando ognuno di noi sta male, sta male non solo perché ha il dolore fisico, perché si è rotto la gamba e gli fa male, questo sì, ma capisci, per il dolore oggi ci sono gli antidolorifici, e per fortuna, ma la sofferenza è la situazione d’interiorità in cui ognuno di noi si trova per sentirsi abbandonato e non esistono medicinali contro la sofferenza, provate a pensarci. Qual è l’unico antidoto alla sofferenza? Il dono, quando io entro in relazione con te, questo è il dono. Infatti, perché bisogna andare al letto dei ricoverati all’ospedale, quelli che non hanno nessuno? Questa è la ragione. Uno che va la cosa porta, medicinali? Ma neanche per sogno, ci sono già i medici, ma gli porta, magari non sa neanche parlare bene, però gli porta la vicinanza, e infatti – io non vi conosco di che razza siete voi – ma i cristiani hanno questa immagine, Gesù quando sta per morire ha sofferenza non ha il dolore, perché Lui il dolore lo sapeva vincere, gli avevano messo i chiodi, fan un po’ male i chiodi, tanto è vero che lui dice: «Perché mi hai abbandonato?», non dice: «Perché mi hai fatto dolore?». Perché l’abbandono provoca sofferenza, che è diversa dal dolore. Adesso capite se voi volete far capire il dono e la donazione, con la donazione io ti porto la medicina, e va benissimo perché ti tolgo il dolore, ma con il dono io allevio la tua sofferenza, non ti faccio sentire solo, perché io ti do consolazione, cos’è la con-solazione? Non far sentire sole le persone, e questo è semplicissimo, se voi lo spiegate lo capiscono tutti. Io vado ogni tanto a Bologna dove c’è una associazione di down, mi chiamano a parlare ai down, e queste cose le capiscono benissimo, meglio di quelli che non sono down, e dico: «Eh, sì, è così», perché hanno una sensibilità particolare. Sapete che l’inventore delle cure palliative nel suo libro autobiografico, che è stato tradotto 25 anni fa anche in italiano, ha raccontato le sue esperienze di cura durante la guerra. C’era un ospedale da campo, uno era nel letto e urlava, i medici dicevano che urlava perché aveva il dolore, perché gli avevano diagnosticato una polmonite in stadio avanzato. Dolore e cure, perché provavano a dargli un po’ di morfina, quelle robe che c’erano allora, e lui continuava a urlare. Allora, non sapendo cosa fare, cosa fa? Si mette al letto di questo malcapitato e gli mette il braccio intorno al collo, immediatamente quello, che non parlava la lingua perché era un russo, smette di urlare. Scrive nel suo libro: «Io, a quel punto, mi sono vergognato di me stesso, come medico, perché non avevo capito che lui urlava non per il dolore ma per la sofferenza di essere abbandonato, ed è stato sufficiente un braccio attorno al collo per farlo sentire di nuovo unito a me». Ecco allora perché io vedo che c’è in futuro un recupero di questo, perché ognuno di noi quando si trova in certi momenti, è chiaro che c’è anche un po’ di dolore, il dolore passa, le medicine palliative, gli antidolorifici, insomma, passa, e invece se vogliamo combattere la sofferenza e la solitudine esistenziale non c’è altro articolo che quello. Chiudo veramente con un episodio di natura personale, noi abbiamo 4 nipoti, la più piccola si chiama Margherita – adesso ha 9 anni – l’anno scorso viene da me e mi dice: «Nonno, insegnami delle cose difficili», perché gli altri tre fratelli, più grandi, sono sempre lì a dire: «Tu non capisci perché sei piccola», lei è furba e pensa: «Io dal nonno mi faccio dire le cose difficili», è così. Allora io le dico: «D’accordo, sai cos’è la bellezza?», e dice: «Nonno, questa è molto difficile, dimmelo bene tu». Allora io le ho dato la risposta, di San Tommaso: «La bellezza è lo splendore della verità», queste son parole di san Tommaso, perché la verità risplende, quindi è bella. Tutta contenta – lei non aveva capito – va dallo zio, mio genero che è un ingegnere, e gli disse: «Zio, tu sai che cos’è la bellezza?», e lui «Ma non vedi che sto lavorando? Che domande stupide sono queste, non farmi perdere tempo» e dice «Ah! non preoccuparti, te lo dico io, è lo splendore della verità», quello lì un altro po’ sveniva! Una bambina di 8 anni. E allora fa un gesto che non avrebbe dovuto fare – infatti ho dovuto picchiarlo anche a lui, dopo – e lui gli ha detto: «Allora adesso tu dimmi, io non ho risposto alla tua domanda, vediamo se sai rispondere alle mie: dimmi cos’è la verità?». Sapete cosa ha risposto Margherita a 8 anni? «La verità è quella che dice il nonno». Quando me l’ha raccontata le ho detto: «Margherita adesso – era estate – tra pochi mesi comincerai ad andare a catechismo per la prima Comunione, ti verrà insegnato che la verità non è quella che dice il nonno, ma è quella che dice Gesù, però, nel frattempo, continua pure a pensare così». Ora voi ridete, ma io questo fatto non mi ha fatto dormire diverse notti, e quindi anche mia moglie, perché io dicevo: «Ma qual è il messaggio che mi è arrivato?», perché le cose non capitano mai così a caso, bisogna saperle interpretare. E pensa e ripensa, e non ci dormivo, e alla fine ho capito, ed è questo: che i bambini arrivano alla verità non per via di ragione, o razionalità, ma per via di cuore, cioè d’amore. Perché lei ha pensato: il nonno mi vuole bene, e lei lo sa che gli voglio bene, come voglio bene a tanti altri, quindi se mi vuole bene non mi può dire le bugie. Allora, la lezione che ne ho tratto è che ci siamo vergognati, mia moglie ed io, che essendo due vecchi non avevamo messo, perché noi adulti pensiamo che alla verità si arrivi solo con il ragionamento, con questo con quell’altro, e ci vuole la razionalità, ci mancherebbe altro, però, attenzione, ci sono situazioni di vita, casi di vita, i quali alla verità si arriva prima, immediatamente, per via di amore, e l’amore è la quinta essenza, il tessuto collettivo del principio del dono come gratuità.

 

Pubblicato da Paolo Nardi

Dr Paolo Nardi is International Affairs and Research Officer at Cometa VET Centre (Italy) and Coordinator of the UNESCO-UNEVOC Centre for Italy. Co-opted Board Member of VETNET (association of researchers in VET). Fellow at PlusValue. Board Member of the Journal Economics and Policy of Energy and the Environment. Degree in Public Administration and International Institutions and PhD in International Law and Economics at Università Bocconi; MA in Public Policy at Brunel University London. His research interests shifted from human geography (namely: non profit, social innovation and community development) to education and training, namely innovations in pedagogy and life skills.

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